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Religio sine qua non- Dentrattutto di Paola Verdicchio

Aggiornamento: 22 dic 2023




Religio sine qua non


E ti vengo a cercare

con la scusa di doverti parlare

perché mi piace ciò che pensi e che dici,

perché in te vedo le mie radici

(F. Battiato, E ti vengo a cercare)



Nonna Anna aveva uno strano rapporto con Dio. Accettava le sue decisioni senza osare neanche pensare di metterle in discussione. Quando Maria Rosaria, la sua prima figlia, si ammalò, lei non pianse, almeno non davanti alla famiglia. Che fosse fatta la volontà del Signore!

Quando anche Annetta si ammalò, continuò a pregare la sua devozione.

E quando entrambe morirono, semplicemente si eclissò nel suo Alzheimer e volò lontano insieme col suo dolore, fingendo di vivere per quelli che rimanevano.

Zia Luisa si sentì sola e abbandonata, ma vegliò sulla fuga involontaria di sua madre e la accompagnò per mano nel suo viaggio di non ritorno.

A nulla servirono le leggere creature del secretaire o i santi e le madonnine di cui nonna si imbottiva il reggiseno per anestetizzare il suo pianto muto e asciutto.

Si muoveva frettolosa tra stoviglie e detersivi. Spazzava, spolverava, lucidava, disinfettava e cloroformizzava le sue cose vecchie per ridare almeno a quelle tutti i giorni che non era riuscita a impetrare per le sue figlie.

Sperava che Dio potesse vederla. Incrollabile e ubbidiente di fronte alla catastrofe. A Lui offriva le pene di ogni crosta di intonaco della sua casa vuota, ogni verbo che le rimaneva incastrato in gola. Per Lui strozzava con le sue mani tremanti ogni ipotesi di ribellione, premendola a forza nei cassetti del comò, soffocandola sotto le tovaglie ricamate e le posate buone. Ma Lui, proprio Lui non ascoltò il suo silenzio.

E allora nonna lustrò il marmo del secretaire e aggiunse le sue figlie alle altre figurine dell’antico mobile. Le guardava sorridere, ma lei non sorrideva. Mai.

Le preghiere senza parole di Ninina, le formule magiche che affioravano già vecchie sulle sue labbra esalavano dai budelli dove le Mennella avevano abitato per quasi mezzo secolo.

Alzando lo sguardo su quel paradiso casalingo di pietra e legno ogni minuto, biascicava incomprensibili suoni che non avevano più bisogno di voce.

Ora Rosaria e Annetta avevano diritto alla reverenza dovuta a esseri di rango superiore, poiché ora, dall’alto, potevano contemplare, imperturbabili e ieratiche, i casi della famiglia. Bianche e pure su una roccia candida e triste come solo il lindore dei morti -a cui nonna Anna non consentiva macchia alcuna- può essere.

Un giorno della sua lunga agonia muta pure nonna Anna volò sul secretaire, ma neanche da lì riuscì mai a sorridere, perché lei non sorrideva mai. Soprattutto, mai nelle foto: non le piacevano quelle copie di sé, perchè si portavano via un po’ della sua anima malinconica, ogni volta. Lasciandola più sola, ogni volta.

Le pareti della vecchia casa smisero di sospirare solo dopo che l’ultimo respiro tremulo di nonna Anna ebbe attraversato gli infissi, mescolandosi con i gas di scarico delle automobili che strombazzavano su Corso Resina.

Le faceva sussultare quel fiato ansimante, che accompagnava da sempre le riflessioni di Ninina, tacitate dall’imbarazzo, pensate a fil di voce, perché non si perdessero tra le voci dei fruttivendoli e gli strilli dei bambini ingozzati di pasta al pomodoro sulle scale di Villa Cua o fuori al vico Moscardino.

Delle lacrime lei non conosceva neanche il sapore.

Mai la morte riuscì a scorrere sul suo viso perfetto, incanalata in umide strisce salate, opaca di cispe melmose, di ciglia cadute e di pensieri rappresi e poi disciolti. La sua pelle di soia ammuffì, si prosciugò, arsa dai ruscelli di magma che le ristagnavano tra gli occhi o scorrevano a ritroso, bruciandole il respiro.

Il suo alito di carne e melanzane fritte, i suoi zoccoli pesanti, il suo silenzio assordante non lasciavano riposare i fantasmi di quel pezzettino del palazzone che era casa Mennella.

Le mille anime, che l’avevano abitata nei secoli, ora dormivano in pace, ora che non c’era più il Lysoform di Ninina a gelare ogni anfratto.

A volte si udivano ancora bisbigli forare la carta da parati beigiolina a fiori rosa, si vedevano ancora dita diafane punzecchiare le controsoffittature di recente fattura.

Negli anni ottanta nonna Anna aveva deciso di dare alla sua dimora un aspetto più moderno, mettendo in atto il progetto, a lungo meditato, di trasformarla in un appartamento tipico della media borghesia, così come si confaceva alla posizione che le sue figliole -quasi tutte- avevano raggiunto. Dimezzò i 5 metri e ottanta di altezza, fece murare la porta del bagno che, vergogna delle vergogne,si apriva all’interno della cucina, contaminandola con i suoi disagevoli effluvi, tolse i ceppi di pomodori e peperoncini, i salami e i caciocavalli che pendevano dal soffitto e che tradivano le origini della sua casata stracciona.

Eppure quel vecchio, glorioso pezzo di villa non divenne mai un appartamento. Incurante delle migliorie, costate pane e sangue alle vecchie ricamatrici Mennella, costretta a somigliare a un appartamento, la cappella gentilizia di Villa Cua, costruita nel 1912 ed eroicamente sopravvissuta al primo e al secondo conflitto mondiale, continuava a scricchiolare nelle midolla, sotto i colpi del vento, riuscendo, nonostante tutto, a non crollare. Seguitava a nascondere le cose che la famiglia lasciava in giro e decideva lei quando farle ritrovare. Tra le imposte dei balconi e le stanze c’erano delle intercapedini di circa mezzo metro, in cui Genoveffa, da piccola, si rintanava per nascondere i suoi tesori, in genere santini e medagliette che le sue tante nonne le infilavano sotto le magliette o nelle tasche per proteggerla dal male. Affidava i suoi messaggi a fogli di quaderni di terza elementare. Li appallottolava e li infilava nei buchi dei muri, sotto il parato scrostato. Non ne era sicura, ma qualcosa le suggeriva che sarebbero stati letti. Da chi, non avrebbe saputo dirlo. Aveva da sempre il sospetto di essere seguita mentre correva a perdifiato nel lungo corridoio che collegava la cucina con la stanza dentrattutto. Sentiva viscide pupille staccarsi dai muri e sfiorarle i capelli, occhi senza volto, occhi e basta.

Dentrattutto c’era il laboratorio delle zie, sarte, filatrici e ricamatrici da generazioni.

Trionfava sul fondo dello stanzone del cucito, a sinistra del secretaire, un grande armadio, alto circa tre metri e largo due, di forma ovoidale, con uno specchio, anch’esso ovoidale, davanti. Da quell’intestino grassoccio provenivano strani odori ma Genoveffa non capì mai di cosa né se fossero piacevoli.

Una volta sola si sporse in quell’addome di noce e lui la ingoiò.

Nella pancia buia dell’armadio non riusciva a distinguere ciò che la palpava, non capiva se si trovasse ancora in superficie o se fosse sprofondata al centro della terra.

Aveva la sensazione che qualcosa le accarezzasse teneramente la testa e, alzando gli occhi, le parve di scorgere una sagoma impiccata su una gruccia, uno scheletro coperta di pelliccia.

Un ectoplasma peloso! Forse un’anima in pena, volata via dal secretaire e risucchiata da quel ventre prominente.

Penzolando e oscillando, pareva dirle -Vieni anche tu con me! Ci sei mai stata qui al buio? Si sta bene, sai?.

Ma lei non ci credette, spinse con forza la mano che la cosa le offriva.

Saltò giù dall’armadio, che si elevava dal pavimento di almeno dieci centimetri. Fuggì lontano, in cucina.

Che quella casa fosse strana l’aveva sempre saputo.

Aveva pance, unghie, mani, braccia, occhi, piedi, capelli, scarpe. Ma non volti.

E aveva cappotti di astrakan olezzanti di violetta.

Forse, attraverso quella enorme bocca di legno, ingurgitava le anime dei suoi inquilini, di persone morte.

A volte la sentiva persino piangere, la casa, o pronunciare incomprensibili lagne in una lingua sconosciuta. A volte tentava di asciugare le lacrime che trasudavano dalle pareti.

Per lo più le chiedeva di lasciarla in pace.


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1 Comment


Titty Romano
Titty Romano
Dec 15, 2023

Bellissimo racconto ,riuscivo a vedere ogni angolo di quella casa e la cosa che mi è rimasta impressa è il secretaire della nonna quando aggiunge le foto delle figlie. Immagini vista e vissuta nella mia vita con l aggiunta di una luce perpetua .

Questi racconti sono da pubblicare in un bellissimo libro perché descritti in modo da fare entrare in quel posto chi legge.

Complimenti

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