A Mamaluk
Il fantasma materno può guardarti anche da un nome
What I’ve felt
What I’ve known
Never shined through in what I’ve shown
Never free
Never me
So I dub thee unforgiven
(Metallica, The Unforgiven)
Il treno della circumvesuviana sferragliava traballante verso Napoli centrale. Sfiorava con la sua musica rugginosa le stazioni di Santa Maria del Pozzo, Barra, San Giovanni, Gianturco. I tossici effluvi delle ciminiere ogni giorno le aiutavano a morire, dolcemente, in anestesia totale. Genoveffa guardava gli altri pendolari, le pesanti coltri di noia sui loro volti. Milioni di occhi avvizziti a stare appesi ore e ore sotto speranze vecchie e tristi come il cucco. Le solite, quelle di tutti: uno sguardo seduttivo e infedele dritto in faccia, un tizzone puntato in mezzo al petto, uno squarcio di pelle profumata capace di massacrarti il cervello e di spingerti fuori dai binari, a vivere.
Non riusciva distinguere la propria storia riflessa nei vetri opachi insieme a mille altre, né il suo volto.
Il convoglio della speranza non faceva sconti, a nessuno.
Il suo zaino languiva tra le decine di zaini sbrindellati da intollerabili attimi inerti.
La vide. Sorrideva beffarda, con i suoi denti radi e neri. Allungava arrogante il suo cespuglio di stoppia su quella catasta di volti senza pupille, mani senza dita, camicie senza collo, pantaloni senza busto. Ormai da anni la signora dei topi le appariva dappertutto, anche sui vetri della circumvesuviana, con i suoi cenci e la sua puzza di morte e povertà. Un’ossessione dannatamente reale, con la sua faccia di carne rancida e imputridita. Le sputava in faccia la sua follia impudente, derisoria, sfacciata. Le vomitava addosso lo stesso dolore. Ogni volta. Ma almeno questo Genoveffa lo aveva imparato: non si ascoltano i fantasmi e i pazzi, si fugge e basta.
La signora era uno spettro di sangue, muscoli, tessuti molli, vene e capillari affioranti che viveva accatastato sulle sue buste di plastica piene zeppe di niente, e difese a costo della vita stessa, all’angolo tra corso Garibaldi e via Marina. Si specchiava sempre in un pezzo di vetro e si stendeva sulle labbra un avanzo di rossetto raccattato chissà dove, chissà quando. Stava sempre a colorarsi quella fessura dello stesso colore del resto del viso, una cartavetrata marrone, una mappa grinzosa e gualcita della sua età.
Tutte le zoccole napoletane si davano appuntamento lì, su quella carovana di storia andata a male, per festeggiare il loro carnevale quotidiano, tra pezze e trucchi appariscenti. Le saltavano sulla pancia, sulle braccia e sul viso, senza farle del male. Dividevano con lei il cibo e il rossetto, cardandole il cespuglio che aveva sul capo con i pettini delle loro unghie. La signora era una donna. In verità Genoveffa non era sicura che fosse proprio una donna. Di certo era un corpo, umano. E aveva una bocca. Ma tanto ora viveva solo per essere la materializzazione delle sue tante paure: la fame, la povertà, la tentazione di lasciare tutto e tutti, l’impulso invadente di liberarsi la testa oppressa dalle placche demielinizzate, dalle nevrosi ossessivo-compulsive, dall’amore e dalle sue assurde ipostasi. E da tutte le parole inutili della sua vita, più di tutte quelle greche e latine. Più inutili della sua inabilità a vivere e a morire. Più improduttive della sua ostinazione a restare, andandosene ogni giorno. Un labirinto da cui era difficile uscire, un labirinto che aveva iniziato a costruirsi pazientemente fin dall’infanzia e che, certo, qualcuno aveva iniziato ad architettare anche prima che lei cadesse al mondo Quella culla familiare, calda e accogliente, divenne la montagna di ovatta che le soffocò la mente e le asciugò le vene. Una montagna che crebbe ipertrofica, alimentata dall’affetto delle sue troppe madri e dei suoi pochi padri. In quel dedalo di cotone le tenevano compagnia i santi, e le madonnine, le anime dei defunti che campeggiavano sul vecchio secretaire della famiglia Mennella. Bambini appena nati e immortalati nella loro morte prematura, abbellita con trine e merletti, le guance dipinte sapientemente con fard per fingere il ribollire di un sangue, ormai viscoso e freddo: una morte truccata da vita. Come a dire che la vita, in fondo, è solo il volto contraffatto della morte. Sapeva che quelli erano i suoi angeli protettori, sapeva che erano il sangue che scorreva insieme al suo sangue, che erano gli occhi grazie ai quali vedevano i suoi occhi. Eppure ne aveva paura. Perché erano morti. E i morti bambini non pensano i pensieri di chi nasce vecchio, non conoscono neanche la pesantezza dei pensieri. I bambini morti non sporcano la culla di cose da adulti. La purezza di quei bambini non fu mai di Genoveffa. nata sporca in una culla bianca, nata decrepita e senza ali, senza gli occhi puri delle eteree creature del secretaire.
E tra i batuffoli di bambagia, gli stracci e il make up della sua culla elefantiaca un giorno incontrò la signora. Se ne stava seduta sulla sua storia dimenticata, ostinatamente custodita in mille sacchetti di plastica bucherellata.
Non aveva bisogno di nessuno, giocava con la sua pazzia lucida, si lasciava coccolare solo dalle sue zoccole, madri mature, madri senza latte. Doveva essere una che aveva abbandonato un giorno la sua ovatta, senza troppi rimpianti, o, forse, se la portava sempre dietro, ma ben sigillata in quelle buste puzzolenti di un nulla in cui solo una vita persa è capace di raggrumarsi. Si truccava di rosso la bocca senza colore, dormiva sui brandelli di vita strappati a morsi e mai più restituiti. Senza santi, senza angeli, senza zavorre, in caduta libera sul passato e sul futuro.
Come paracadute, a volte, solo quelle sue buste maleodoranti, zoccole di strada come vessillo di una verginità perduta e ritrovata. Senza castità e senza perversione. Un’innocenza vera, santificata dagli atti impuri della sua libertà e del suo istinto bestiale.
Vedendola riflessa sul finestrino di fronte, Genoveffa le augurò di essere felice. Ma lontana mille binari. Scese dal treno. Attraversò di corsa la stazione terminale, si fermò all’edicola e in tabaccheria. Si tuffò nel mercato, riemerse su corso Umberto. Cambiò marciapiedi milioni di volte. Camminava in fretta, intabarrata in un tanfo familiare.
La signora teneva tra le labbra un mozzicone abbrustolito e, di tanto in tanto, sputava in faccia il fumo dalla vetrina di qualche fast food o dagli specchietti delle auto in corsa.
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