In the morning when I wipe my brow Wipe the miles away I like to think I can be so willed And never do what you say I'll never hear you And never do what you say
… Look my eyes are just holograms Look your love has drawn red from my hands From my hands you know you'll never be More than twist in my sobriety
(Tanita Tikaram)
Emerse quasi senza respiro. Anche quella notte.
I lunghi capelli d’alga increspati di sale. Sotto le unghie granelli di sabbia bianca e invisibili squame di cavallucci marini.
Ogni notte Genoveffa Verbiggi si immergeva tra le lenzuola alla ricerca di una riserva d’aria e di una maschera di madreperla in cui poter respirare fuori dal suo mondo liquefatto.
Il letto sgangherato, come una barchetta nell’oceano procelloso, sotto le sue bracciate vacillava. Ogni notte.
E ogni notte lei si allenava ad ingannare i suoi globi oculari da ipertiroidea, arenosi e friabili, che si riflettevano sui vetri acquosi della finestra al quinto piano, scala B, di un palazzone qualunque di via Doglie, Ercolano. Abbassava le tapparelle e giocava con i fili di luna che filtravano tra le fessure di plastica senza illuminare nulla. Si rigirava i sottilissimi bracciali di luce pallida tra le dita ossute, riscaldandosi il viso sotto quella lampada tiepida. Poi si tuffava.
Stramba sirena di terra, dai capelli prolissi e confusi, sopravviveva da sempre senza pinne e branchie, con un tubero spiaccicato in pieno viso e cresciuto storto e troppo carnoso, almeno rispetto ai nasi regolari delle vecchie ricamatrici Mennella, vergini e madri, capostipiti della dinastia di sole donne di cui lei era l’estrema, ammuffita appendice.
All’asciutto, a metà degli anni ottanta, frequentava la V sez. C del liceo classico Quinto Orazio Flacco di Portici.
Era il periodo in cui in cui lì si doveva essere belli o ricchi o geni.
Non erano i suoi casi.
Nuotando nell’universo buio e sottomarino della sua culla liquida, alla ricerca di un amore fluido e solubile, incappava solo in principi detronizzati sporchi e gibbosi, ributtati in acqua senza squame e senza fiato, feriti a sangue dalle reti a strascico.
Gli eredi al trono, i reucci del Flacco, veleggiavano in superficie. E così non li incontrava mai.
In compenso, sbatteva ogni notte contro sovrani fangosi, esiliati dai loro regni, che cavalcavano pesci ranocchia, rinsecchiti e catarrosi, e che provavano a indovinare la strada con i loro occhi bulbosi e velati di meduse, dello stesso color cacca secca di quelli di Genoveffa.
Da tempo si era convinta che qualche disegnatore strafatto o ubriaco, o solo troppo stanco, la avesse abbozzata su un Kleenex dopo una notte di bagordi, così, tanto per smaltire la sbornia, e poi, con le palpebre calate sui pensieri, aveva abbandonato l’impresa troppo in fretta.
Due palline da tennis e una patata scarabocchiati sul viso, senza una bocca per sorridere.
L’eroina, venuta paralitica e sbilenca, dalla gloria della scrivania si era ritrovata, in un attimo, nel cestino della carta straccia.
E così, ogni notte, Genoveffa si immergeva paziente per allagare il supermarket a buon mercato dei suoi pensieri senz’aria.
E ogni sacrosanta notte, stillante e salata, tentava la scalata dal cestino umido della carta straccia, appiccicaticcio di fondi di latte di soia.
Si faceva largo tra zanzare morte spiaccicate e indegnamente seppellite, tra matite temperate e avanzi di verbi in -μι, nuotando tra alghe marcite e lische di pesci in coma, schivando unghie mangiucchiate e pezzi di cena appena vomitata.
Con tutta se stessa cercava un’altra possibilità. Farsi ridisegnare ad ogni costo: l’imperativo della sua vita sottomarina.
A volte, senza troppa convinzione, puntava i piedi sui mucchi di fogli appallottolati e grumi di mascara colato la sera prima e spiccava salti vertiginosi per appiccicarsi di straforo nelle strisce di vita altrui. Come comparsa, magari. Almeno.
A volte finiva in qualche tramaglio e allora mani puzzolente di pesce marcio la sollevavano e, ridendo, la ributtavano nel suo oceano acquitrinoso.
E ogni notte ricominciava la sua battaglia persa a rintuzzare mani sudate, occhi guerci e zampette viscide che tentavano di trascinarla sotto la superficie brodosa delle lenzuola, incollandosi sulla sua pelle ruvida, spinosa, repellente a ogni cosmesi.
Ma una sera, dopo centinaia di anni di vita umidiccia, lo vide. Un sabato.
Entrò, confuso tra gli altri.
Un cespuglio di capelli incolti si allungò sopra i fiumi di gel d’ordinanza. E brillò nel grigiore degli abiti.
Gli occhiali deformati di chi ci dorme sopra, senza ritegno.
Le guance segnate da un vecchio conflitto mai iniziato contro l’acne.
Le sembrò brutto, insignificante.
Intorno a lui una scia malinconica di intellettuali magazzinieri ed operai, agonizzanti tra radiant thinking, crediti formativi e ricordi sassosi di lauree fossili. Quella pozzanghera colata di carne e sogni sconfitti rimase ipnotizzata dai fumi delle tagliatelle ai funghi che campeggiavano al centro della tavola apparecchiata.
Come in overdose da fluvoxamina, la brigata prese posto intorno al tavolo di formica bellamente abbigliato a festa e cominciò a parlare di musica, arte, cinema…
A un tratto una granata satura di ore, secondi, millenni scoppiò sotto lo sterno di Genoveffa. Le schegge dei suoi anni gocciolanti si fusero nell’esplosione e, incandescenti e gelatinose, le si attaccarono alle costole, facendogliele dolere.
Le tagliatelle scotte si appiccicarono al piatto, diventarono molecole candide di ceramica. Un’unica, inscindibile poltiglia di sangue, carne, vapore di panna e porcini.
Cercò di afferrarle invano con la forchetta, ma quelle impunite cadevano dalle sue mani appiccicaticce di metallo sciolto e olio, inzaccherando la tovaglia, senza pietà.
La sveglia cardiaca pompava e pompava e pompava: acqua torbida, capelli aggrovigliati, nidi di rondini in caduta libera sui rovi. Rintoccava come un pendolo impazzito e sgangherato, incapace di rincorrere il tempo fluidificato, inetto a misurarlo.
Le lancette spuntate, conficcate nelle budella limacciose, continuavano a vibrare, facendo tremare gli organi interni come budini…
“Ah sì, Michael Moore, il regista del documentario sugli uccelli” tentò di partecipare Genoveffa.
Proprio non riusciva a tirare fuori nessun pensiero sensato dalla montagnetta di letame e neuroni spappolati in cui si erano andati a infilare tutti i concetti messi in archivio proprio per momenti come quello. Quando un ordigno esplosivo disattivava i comandi della camera dei bottoni.
Quando il cervello si voltava di spalle e sguazzava in una grossa merda di piccione. Quando l’encefalo cantava ubriaco di bolle di sapone nella vasca idromassaggio dell’hotel Hilton.
Genoveffa girò lo sguardo intorno, in cerca della mano che aveva innescato la bomba a orologeria, sabotando le apparecchiature di difesa.
Paolo, alla sua destra, emetteva aliti di vapore acqueo all’aroma di porcino, parlando di cinema, di musica, di arte.
Lei non percepiva il senso delle parole, solo il suono.
La voce non era bella. Ordinaria. Troppo acuta per un uomo. Almeno per i gusti di Genoveffa, educati in una vita di immersioni notturne in apnea, alla ricerca di principi di acqua marina.
Tra sospiri rauchi di sale, tentò di scrostarsi dal viso i tentacoli di polpo che le serravano le labbra e le incollavano le ciglia.
Con colonie di patelle cerulee attaccate alle sue cortecce grigie, con milioni di vongole capovolte sui bocchettoni dell’ossigeno, con ventose di calamaro attaccate a quell’enorme poltiglia di nervi e carne che era diventato la sua grande madre, tentò a forza estrarre dal pantano almeno una cellula nervosa in stato di coma vegetativo.
Paolo scosse il capo sorridendo con delicatezza.
Lo snorky occhialuto la guardò con la tenerezza che si mostra verso chi non sa, non ci arriva o non ha potuto studiare.
“Forse ti confondi con Il popolo migratore di Jaques Perrin…” Aspettò la risposta di Genoveffa.
Ma le appendici del mollusco si aggrovigliarono più tenacemente tra i pensieri di lei, impedendole di parlare.
“Moore il regista di Fahrenheit 9/11, sai quello famoso col berretto… quello delle inchieste su…” si impietosì lui.
Il cervello di Genoveffa continuava a sguazzare in un mare di guano profumato e salato.
Educatamente lui abbassò gli occhi sulle mani sottili, prima di riprendere il filo di un discorso sensato, impunemente interrotto da una che non riusciva proprio a trattenere la cazzata delle 22.15, ma che era pur sempre la padrona di casa.
-Torri gemelle… Bush… complotto… regia… terrorismo…- Paolo continuava a parlare di cinema.
-Legame. Legame. Senso. Senso BIIIP… Segnale momentaneamente assente… Cazzo Cazzo Cazzo, eppure queste cose le ho già sentite. BIIIP Interruzione di segnale…... ZZZZZZZZ Screeeeeeeeccccchhhhhhhzzzzzzzzzzz
Genoveffa tentava di sputare qualche mitile infiacchito dalla dura battaglia o di riacchiappare al lazzo qualche neurone vagante.
-Di’ qualcosa di sensato BIIIP
“Ah, certo, certo. Come no? Ovvio… (risata isterica) ZZZZZZZZZZzzzzzz… mi ricordo, certo, l’ho visto proprio la settimana scorsa il film”
-Esci dalla vasca da bagno, stronzo di un ammasso di fili bruciati. Cazzo, asciugati le sinapsi col phon e falle funzionare immediatamente, se no questa volta ti distruggo davvero a forza di Tavor…
Genoveffa agitava la forchetta per infilzare le parole, ma quelle, in fuga dai loro significati, volteggiavano nella cucina, insieme ai respiri saturi di boleti di coltivazione.
Una sinapsi senza guinzaglio ordinò alle sue pupille spaurite di fissare il piatto con un sorriso ebete
-Non mi piace, non mi piace per niente ‘sto deficiente presuntuoso e pure brutto- si ripeteva per calmare il fiume in piena che ormai scorreva talmente in fretta da far evaporare le sue acque sotto forma di imbarazzantissime bollicine colorate.
-Cazzo, cazzo... Signore, aiutami, ti prego … non ti farò arrabbiare mai più … Mi passerà, mi deve passare. È un attacco di panico, un semplice attacco di panico… Bisogna lasciarlo passare, non reprimerlo…-
Ripassò tutto quello che aveva imparato su ansia, depressione, attacchi di panico e non comprimere le emozioni e lasciar andare e respirare profondamente … è solo uno stato confusionale momentaneo, non sto impazzendo… mi chiamo Genoveffa, Verbiggi, sì, sì, riesco a connettere ancora, meno male che non sono impazzita proprio ora… che figura di merda… e, sì, sì, è ovviamente panico e bisogna respirare e… e… poi ... anni e anni di dialoghi solitari con la sua analista seppelliti definitivamente sotto un cumulo di tagliatelle.
Le mani le si ghiacciarono. Insieme alla pasta. Insieme a minuti interminabili.
Così lui passò nella sua vita, inconsapevole come un colombo in volo che caca sui capelli dei passanti in tutta naturalezza. E mentre quelli sbattono le braccia, imprecando sotto il suo culo aereo, lui, dall’alto, non li sente più.
Non li ha mai sentiti.
Come un pennuto da cornicione, Paolo volò via, più leggero di prima, lasciando i suoi umori a fermentare nella pancia e sui vestiti di Genoveffa.
Una notte, spiaggiata sulle sue lenzuola marine, lei gli scrisse un messaggio scoordinato e ondoso e senza volto come i pensieri di quella serata e delle molte altre che seguirono.
Paolo rispose. Tutte le volte.
Rispose schernendosi. Rispose difendendosi con un’ironia feroce e con quattro sillabe messe in fila controvoglia. Ogni volta.
Il cerebroattivo non riusciva a cancellare la voglia di conoscere l’identità di quei grafemi emersi dagli abissi, ancora attaccaticci di anemoni e squame di pesci pagliaccio.
Paolo giocò a scacchi con l’acqua di mare rigonfia di lische e branchie e uova non ancora fecondate.
Allora lei, dopo molte notti spese a dragare il fondo, emerse con noia dalle sue coperte salate e si adagiò sul litorale arido e assolato.
Il tedio la svelò: la regina sterile e irrorata di mare aveva perso contro l’alfiere di terra sabbiosa. Lui era rimasto sempre asciutto sulla sabbia calda. E non ci pensò mai a immergersi tra i teli ricamati di capelli salmastri, nei gorghi profondi di cuscini disciolti. A volte sputò nell’acqua limpida per intorbidarla, altre si bagnò, ma solo la punta delle dita. Non si tuffò, non nuotò, non galleggiò. E non annegò mai.
Genoveffa, senza lisca, fuori dalla sua liquida dimora, portava in giro i suoi capelli di plancton, nutrendosi la pelle di alga nei lavabi dei bar, fermandosi a respirare nei boccioni di vetro sui davanzali dei ristoranti di quart’ordine, in compagnia di pesci rossi sbiaditi e malinconici.
“Provo imbarazzo nel pensarti” le scrisse lui una volta.
Quella melma asciutta di lettere insipide la fece sprofondare tra le pietruzze delle mattonelle, nel bagno del cinema Astra, dove si era rintanata per leggere il messaggio. Scheggia tra le schegge, calpestata da una suola sporca di escrementi di colombo e piscio di cani randagi.
Ferita in pieno petto dalla spada di un compagno d’armi, prese le distanze dalla punta ferale. Covò il suo segreto come un figlio amato, doloroso, invasivo, pronto a lacerare la sua stamberga di sangue e organi collosi pur di venire alla vita. Si sentì inerme, trascinata da un ventre diventato ipertrofico e ingombrante. Una pancia mostruosa, piena di larve di insetti acquatici, che le impediva di vedere la terra che calpestava. Un rigonfiamento isterico del suo io liquido.
Avrebbe desiderato guardare il volto di lui mentre mentiva un po’ di attenzione educata. Ne aveva bisogno. Per intellettualizzare, scorgere e svilire gesti goffi, scarnificare difese e lasciar emergere il fondo marcito di tante parole, le radici che lei non aveva mai visto, perché contemplava solo i fiori. Fiori secchi. Di quelli che creano arredamento ma non profumano e non vivono.
Ma niente.
Una notte, però, imbottito di birra, rum, marijuana e chi più ne ha più ne metta, le parlò al telefono a lungo. Genoveffa ascoltava e la sua schiena di balena si rigava di pesci ago e paguri.
La timidezza di lui, coraggiosa di sostanze magiche, le afferrò le budella e gliele torse. Polpi dai tentacoli avvolgenti, seppie morbide dalle bocche dentate.
Senza setacci, tra la polvere di corallo di un mare disfatto, quella notte si amarono.
Danzarono nelle loro vocali scoperte, nelle consonanti pietrose, dietro sottilissimi paraventi di sale. Fino al mattino.
Quello fu l’unico amplesso a cui Genoveffa partecipò con tutta se stessa.
Un amplesso fatto di parole. Totali. Corporee. Bagnate e salmastre. Feconde.
Sdraiata su una rena impastata di fibre tessili e cristalli di meduse. Sterco trasparente di ippocampi spalmato sulla pelle nuda. Una corona calcarea di conchiglie sui capelli d’alga, ancora aggrovigliati a pezzi di reti squarciate.
L’Oceano tutto era disteso e docile sotto i suoi piedi di madreperla.
Un sorriso di stelle marine riflesso sui vetri della finestra. I suoi occhi di delfino annegati in un millimetro di linfa salata.
Quinto piano. Via Doglie 17. Lato mare.
Born to be a sea princess.
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