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Lo scribacchino e il poeta. Storia di una mediocre di Paola Verdicchio

Immagine del redattore: camenae33camenae33

Lo scribacchino e il poeta. Storia di una mediocre.

Vola alta parola, cresci in profondità

Tocca nadir e zenith

della tua significazione,

giacché talvolta lo puoi-sogno

che la cosa esclami

nel buio della mente-

però non separarti da me…

(M. Luzi, Per il battesimo dei nostri frammenti)


Le mie sillabe

come quei torrenti

che, infecondi e folli,

risalgono le loro correnti.

(Genoveffa Verbiggi, una pagina di diario)






Genoveffa. Detta Genny.

Un’ossessione per le parole lei l’aveva sempre avuta.

Insieme a un odio antico per le parole abusate, decontestualizzate, svilite, prosciugate da deliri intellettualoidi, esautorate della loro significazione, ridotte a catene foniche senza un principio generatore, senza un motore immobile.

Le parole per Genoveffa: sovrani senza un regno, abdicati. Un po’ come il nome che si portava addosso da sempre.

Imperi stramazzati.

Meglio il silenzio.

Eppure non smise mai di dragare ogni paludoso mattino, di cercare negli angoli d’ogni pezzo di vita una parola semplice semplice, capace di rigurgitare il senso complesso di una vita, di ricucirne i capillari sfilacciati, di tracciare il rassicurante perimetro dei pensieri.

Genoveffa e l’orda di morfemi e fonemi che ogni giorno la investiva.

Genoveffa e i suoi giorni di lessemi vuoti.

Genoveffa e il tentativo quotidiano di scarnificare i volti e i suoni alla ricerca del sangue, della terra, dell’aria. Genoveffa e il peso senza carne delle nove onerose lettere del suo nome.

Genoveffa e la sua fame d’aria.

Genoveffa sotto il suo sudario.

Genoveffa e le parole.

Sapeva da sempre che di tutte le parole del mondo esiste un significato ed esiste il senso.

Capì col tempo, attraversandone molte, che quello è degli scribacchini, questo dei poeti.

Imparò anche che non si finisce mai di morire di parole, una volta che si è iniziato.

Lei, per esempio, era abituata a morire tutti i giorni della settimana, seppellita sotto il cumulo di sillabe scollate che le scagliava addosso da sua madre, un’insegnante di Lettere...

Ogni giorno si ritrovava rinchiusa nel suo bozzolo senza nessuna farfalla e senz’aria, e ogni giorno tentava di uscire, ripetendo a cantilena tintinnii di lettere liofilizzate, formule magiche che le facessero spuntare le ali .

E così, a occhi chiusi, sperava forte di trovare al più presto la formula magica per la libertà.

“Accidenti a questa vecchia categoria repressa e infelice!” si ritrovava a farfugliare, tra un’emorragia interna e un’altra, con una spina infitta sullo zaino Invicta arancione e diecimila tra i capelli arruffati

“ Uff…’sta gente sa fabbricare le armi più intelligentemente mortali che mente umana arrivi a concepire!”.

Ma, in una delle sue fughe rocambolesche lontano dalle alabarde di sua madre, si ritrovò a vagabondare su un pianeta fatto di parole. Anche lei.

“Sei mediocre. Non tutti possono essere dei geni. Tu non sei scarsa, non preoccuparti. Non arriviamo a tanto, perché hai volontà e studi. Sei solo mediocre …”.

E non una volta che Maria Rosaria si fosse dimenticata di aggiungere: “Io, alla tua età, studiavo poco, solo di notte, ma, va be’, io, però, apprendevo in fretta …”.

Maria Rosaria Falcone era un tipico esempio di promadre, essere mostruoso a metà tra professoressa e madre. E di parole infilzate su selci affilate nelle tasche ne portava parecchie.

“Lei e i suoi spiedini di frutta marcia!”

Genoveffa, a fine di giornata, si ritrovava sempre qualche frammento sgocciolante sotto pelle.

“Non te l’ha mica prescritto il medico di frequentare il liceo classico” la confortava sua madre quando, in stato di semi incoscienza, Genoveffa rantolava parole incomprensibili sull’Areopagitico di Isocrate.

“Ma dai…?” rispondevano gli occhi e le orecchie comatose, ma ancora in sfida disperata, di Genoveffa.

Scocciatissima, Maria Rosaria raccoglieva tutti i pezzettini del cervello di sua figlia rimasti incastrati tra un genitivo assoluto e un periodo ipotetico in ottativo. E ci passava sopra il Lysoform.

“L’hai scelto tu. E poi il Flacco… chi credi di essere? Lo sai che al Flacco ci vanno quelli veramente bravi o quelli raccomandati. Te l’avevo detto. Forse non ci sei portata. Non mi hai ascoltata, quando te l’ho detto. Hai voluto credere a chi ti blandiva, alla professoressa Nitti delle medie!!! Brava! E lo sai dove vanno i suoi figli? In un liceo privato! Però a te ha consigliato il Flacco! Tanto a lei che importa? Non hai voluto ascoltare tua madre, che ti vuole bene e ti conosce meglio di tutti, ed ecco il risultato. BIIIIIIIIIP … ma se io, che sono tua madre, ti avevo detto di non andarci… è perché ti conosco meglio di tutti… Io lo capisco, la verità fa male, ma è megl BIIIIIP iiiiiooooo iiiiiiii prop…limitiiiiiiiiiiiiiiiBIP BiiiiiiiiiiiiiiiiiP…

Quando uno spiedino vagante trafiggeva la coscia di Genoveffa, penetrando fino al muscolo e alle ossa, allora il suo cervello si rotolava, come un dannato, nelle macchie di dolore rossastro, tuffandosi e riemergendo a intermittenza, senza un senso…

Lo odiava proprio quel dannato Flacco e tutti i figli di che lo frequentavano. Lo odiava perché ogni giorno dimostrava le tesi di sua madre.

Il primo giorno di scuola le presentarono un questionario sulla professione dei suoi. Udì i pigolii della prof di matematica, vide le genuflessioni della preside Cosciotti, impellicciata e inguainata, dinanzi al rampollo dell’avvocato…del magistrato, dell’esimio primario… E pensò che sarebbe stata dura…davvero dura.

Ma con lo stendardo della mediocrità, con cui usciva dall’aula, ritornava a casa. E con quello tra le mani trionfanti trovava sua madre quoque ad accoglierla.

Proprio non la sopportava quella parola, mediocre, che si portava appiccicata sulla fronte da sempre.

Poi, a forza di avercela addosso, si affezionò. Le fu grata e fedele. Sodale e amica.

E fu vicino a quelle poche lettere che la piccola Genny rimase a vivere, in quella salvifica bolla d’aria di un bacino insondabile. Lì riusciva a respirare senza dover riemergere, riusciva a tenere buone le sue vene gonfie, le sue mani di alghe digerite, decomposte e rigurgitate...

Certo, si sforzò sempre di fare meglio, di spiccare salti verso la superficie, ma senza toppa premura.

La voragine che la separava dall’accettabilità diventava ogni anno più difficile da risalire a nuoto, si allargava a vortice tra le sue sinapsi bagnate, in perenne, malcelata crisi di claustrofobia.

Ogni sonnacchioso mattino Genoveffa si inerpicava su via Libertà, l’arteria principale di Portici: in cima a quel sentiero metropolitano si ergeva il Flacco. Sembrava un carcere di massima sicurezza e, invece, era solo un liceo classico.

Con la testa insaccata nelle spalle, entrava nel cortile grigio, controllato a vista da un bidello grigio e strabico. Tratteneva il respiro, attingendo gas vitali dalla sua pustola rigonfia, già stordita dagli ottani spetazzati dalle marmitte.

Entrava in aula con il naso a patata immerso nel personale serbatoio sottomarino e se ne stava seduta nel suo banco in apnea,mentre una voce lontana cantilenava in coliambi miser Catulle desinas ineptire …nec sectare…perfer….obdura….

-Obdura…obdura. - rimbombava nella sua mente

-Obdura, obdura- si ripeteva boccheggiando

Ma, quando la riserva di ossigeno scarseggiava,allora si alzava di scatto e, impalata davanti alla cattedra,biascicava qualche lettera soffocata e umidiccia che il professor Paoletta neanche ascoltava,ipnotizzato com’era da quei candidi soles che gli illuminavano la cattedra, lontanissimo da quell’aula ammuffita e malsana.

E chiedeva di andare in bagno.Al non segnale prestabilito,un chiaro non gesto di indifferenza dell’altissimo professor Paoletta, Genoveffa si catapultava fuori, correva nei corridoi col fiato che le restava,spalancava le porte del bagno delle ragazze e immergeva la testa nella ceramica scheggiata del W.C.

Con sollievo, quando tirava lo sciacquone, osservava lo scarico vorticoso risucchiare tutto, lembi di pelle spappolati, ideogrammi gassosi, latte e nesquikconiugazioneatema-ticaCorsoResina213GiuliaMameaGiuliaDomnaGiuliasoemiadeoguantiepellicciottianaciclòsiprofessorPaolettacantiseparatiPerryPaoloCentofantipuzzadicanneepiscioincircumvesuviana,dueocchiazzurrissimifetoredinaftalinaverbiinμιchesidivertonoacamuffarsi.

Mentre guardava anche l’ultimo aoristo cappatico scivolare sulle pareti della tazza e dileguarsi, ripensava al professor Paoletta, alla sua capacità di sollevarsi miliardi di miliardi di miglia sopra il millenario marciume accatastato negli angoli del Flacco, dove solo le zoccole letterate di Portici osavano avventurarsi ,facendo talvolta capolino tra i buchi delle pareti..

Erminio Paoletta ridicolizzava i suoi studenti borghesucci e ideologizzati e commentava i loro “scioperi” contro i topi e pro disinfestazione solo con tre parole latine, “mus territat flacca”, ritraendosi disgustato dalla misera accozzaglia di teste che, invece di volteggiare tra gli asclepiadei minori e le strofi saffiche, ficcavano l’attenzione in una misera crepa del muro dietro la cattedra a fissare un innocuo topino. Genny gli invidiava quell’aulico distacco,quel dispregio raffinatissimo delle umane bassezze, quella leggerezza marmorea con cui passava sopra la sintassi scorretta degli studenti dell’ultimo banco, sopra autogestioni, occupazioni,opinion dominanti, presidi poeti e cavalieri ,anche sopra le quotidiane fughe e i frequenti malesseri di una claustrofobica promessa mancata, Genoveffa appunto..

Il talento di vivere in un universo parallelo,di conversare con Orazio, Seneca, persino con un tale Apollonio Molone e un tal altro Alessandro di Afrodisia, il talento di passeggiare per le vie di Atene con Socrate e senza appoggiare la punta del piede sulle mattonelle tristemente marroncine dell’ aula 2 del seminterrato di via Libertà. Questo gli invidiava.

Se il topolino avesse fatto la cacca sopra le teste di Giulia Mamea, Giulia Domna e Giulia Soemiade, Paoletta non avrebbe sentito la puzza. Genoveffa ne era convinta. Fermamente..

Quel talento Genoveffa non lo aveva.

Le sue corde vocali, i suoi condotti uditivi vivevano da tempo bellamente separati dalla sua materia grigia marcita intorno a milioni di spiedini.

Da sempre quello spazio vuoto tra sé e la sufficienza la trascinava sotto. E lei da sempre tentava di sollevarsi dal fondo sabbioso, di strappare a morsi le alghe parassite e mangiatrici di ossigeno, le lettere onnivore che le contendevano il suo pasto d’aria quotidiano.

Non si stancò mai di nuotare verso la superficie.

Ma riuscì solo a tenersi aggrappata alla tacchetta della mediocrità. Per respirare.

“Tanto non ti bocciano” la confortava sua madre con aria di chi la sapeva lunga.

“Apprezzeranno la tua volontà di migliorarediceva, quando lei non riusciva neanche a leggere un titolone sulla copertina di Max.

“Capiranno che non è che non vuoi è che proprio non ci ri…. e qui si fermava, rifiutando in cuor suo di accollarsi la responsabilità di aver generato un tale impiastro, che avrebbe potuto scegliere un istituto professionale, senza tante storie. A ognuno il suo.

Maria Rosaria Falcone cercava, in buona fede, le parole più adatte per spiegare agli altri il problema di sua figlia. Ma, tra le quattro mura della sua cucina, lei lo chiamava liberamente presunzione.

Genoveffa studiò e studiò. Più degli altri. Più di tutti. Otto ore sul libro di fisica. Un giorno intero sulla versione di greco.

Forse Tucidide è troppo… Meglio iniziare da qualcosa di meno ostico, le venne poi in mente.

Ma neanche Cioè e Donna moderna poterono nulla.

La testa le si chiudeva, le sillabe svolazzavano sulla pagina, le parole si smembravano e si scollavano dai loro significati. Impossibile rincorrerle, scongiurale di restare a parlarle di quel foglio da cui vivevano separate. Impossibile.

Odiava i libri perché non si lasciavano leggere. Li illuminava di inchiostro fosforescente, imprigionava le parole all’interno di intricati labirinti di grafite per incatenarne anche il significato, ma quelli si slegavano, si squartavano, si sfocavano sotto i suoi occhi miopi. Odiava i giornali, i manifesti pubblicitari, persino le liste della spesa, gli scontrini fiscali, le etichette dell’acqua minerale, le locandine dei film... Odiava quei pezzi di carta e inchiostro senza significato, senza patria, odiava le rumorose accozzaglie di suoni inetti a trasportarle un messaggio. Fili di perline assemblate dalla logica altrui, che poi si spezzavano dispettosamente sotto le sue palpebre pesanti, dentro i suoi timpani. Pendagli di acufeni che tintinnavano, rincorrendosi senz’arte.

Eppure non cessò di provare a decodificare i segnali stradali del mondo, gli allarmi sonori e le insegne al neon che campeggiavano sulle teste dei passanti, le indicazioni di salita e discesa dagli autobus di sola andata, gli avvisi di non ritorno negli occhi degli uomini della sua vita.

In questo sua madre aveva ragione, aveva una volontà incrollabile. Ostinata.

Ma non servì. Semplicemente, disimparò a leggere. E tutto per una parola vecchia, per un mediocre che non ammetteva repliche, per tutto il senso di solitudine affollata e insufficienza che le lasciò addosso il vecchio girocollo di sillabe che sua madre le mollò in dono. Senza pensarci troppo. E grazie tante!


Mediocre. Parola identificabile, identificativa, idealizzata e ideologizzata, ideocratica, identitaria.

Veritiera e fedele compagna nella selva dei segni della sua esistenza.


Genoveffa continuò a vivere con quel feto fantasma attaccato ai suoi neuroni pigri, con quella figlia malata che si nutriva delle sue viscere. Che rincorreva una musica senza parole, sbattendosene di comprenderne il messaggio, ballando a piedi scalzi sulle mattonelle rotte del senso comune, fregandosene delle goccine di sangue su cui ogni tanto scivolava.

Si addormentava ogni notte abbracciata a quelle poche sillabe, le uniche di cui riconosceva lo spessore, la sostanza, il sangue, la storia, le uniche che le tenevano la mano nelle notti senz’aria e senza nessuno. Nessuno se non quelle storte gemelline malate a ricordarle chi fosse (e non perché ci fosse o perché dovesse continuare a essere). A volte, quando si trovava troppo lontana dalla superficie e di aria ne rimaneva davvero poca, tentava di staccarsi dal proprio ventre pesante per risalire. Si rinchiudeva nei bagni bui di qualche ristorante o di una qualunque casa e massacrava a pugni e a calci la bambina che le batteva contro la bocca dello stomaco, che le otturava il tubo del boccaglio con il suo groviglio di capelli umidicci.

Non ne conosceva il nome. Solo il peso.

E il sapore del suo sangue.




 
 
 

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