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Enosigeo ovvero Della paura di Paola Verdicchio





 

Vedi, ora tutto è annerito, sommerso dal fuoco e dalla cenere: gli Dei si pentono di quello che hanno fatto"...

(Marziale, Epigrammi IV 44, trad. Vivaldi)

 

 

 

Il rigurgito molle di un ventre petroso ed immenso. Solidificatosi e anneritosi al sole.

Così Genoveffa si sentiva a vivere da tanti anni ai piedi del Gigante.

Sotto le  sue ciglia, indurite dal rimmel o dalle lacrime asciutte, si spostavano veloci gli abitanti di Resina, come pupazzi dalle ossa sfarinate e polverose con le grosse bocche sanguigne sempre spalancate.

Dall’alto, Lui sputava ogni mattina pensieri misti a  pioggia arida sulla finestra al quinto piano di Via Doglie 17. Lato monte.

Pensieri senz’acqua i pensieri dei Resinari. Riarsi nella fretta di partorirsi da soli. Alcuni, sollevandosi e poi ricadendo, si sbriciolavano, tentando un atterraggio di fortuna sulla pelle di qualche passante.

Lui pareva un’enorme Medusa secca, svenuta su un lungo passeggio di generazioni.

Quel celenterato millenario affondava i suoi tentacoli su corso Resina, nel bar di Gigino, che vendeva sempre come freschi i cornetti del giorno prima.

Sembrava un rettile preistorico che spruzzava il suo veleno urticante sui pezzi di pane di contrabbando nascosti nell’ Ape scassato vicino al casello dell’autostrada di Ercolano. E dava alla mollica un sapore di abbrustolito e di vernice.

Anche Ninarella, che vendeva le pizze fritte a Pugliano, ogni tanto si grattava per il prurito e il bruciore.

Il polpo primitivo ed enorme iniettava una gelatina irritante nei tabacchi tristi, sotto le mattonelle beige, che nascondevano una sporcizia mimetizzata e impaziente, nelle sedie beige, nelle scarpe e nelle caviglie beige dei vecchi giocavano a briscola. Avvolgeva le bancarelle di frutta marcia, stritolava le ville dei cafoni arricchiti. Poi si sciacquava le estremità nel mare vivido di teste mozze, una macchia d’acqua lurida che, come ferita sanguinolenta, si allargava intorno alle fabbriche di pellami di corso Umberto. Un intestino molle e cieco, per i Resinari giù al macello. L’andamento traballante di Genoveffa, le sue ginocchia oscillanti, le rotule fragili, le anche molli erano  tutte figlie indigeste di torrenti fumosi, quelli che risalivano da millenni le arterie della sua terra.

Il cuore cedevole e sanguinolento delle viscere non si era raggrumato mai.

Pompava macerie e ossa  nei pensieri. Da sempre.

Sistole e  diastole di un corpo alla rovescia. Le ossa. La paura. Il sangue. La paura. Il respiro. La paura. La notte. La paura.

Il sonno. La morte. La paura. La paura. La paura…

I fantasmi arroventati non smettevano mai di respirarle in faccia, di sputarle addosso le loro unghie che si erano staccate a morsi da soli, dopo aver perso la battaglia contro il Gigante.

Quella disfatta non l’aveva dimenticata nessuno a Resina, vivo o morto.

Tutti ne portavano i segni. Addosso e sulle loro cose. E se li trasmettevano per via genetica.

Il cono del tempo bruciato. L’imbuto dei bassifondi.

La lancia infitta nel mare. Il guerriero stanco anche quella mattina di maggio era assopito, ma  respirava.

Facendo palpitare l’asfalto delle strade. Sgualcendo le camicie di forza del cemento cittadino. Continuando ad alitare senza sosta, senza tregua.

Maria Rosaria non respirava più, invece.

Aveva smesso quella mattina di maggio.

Genoveffa non ci credette subito, perché il corpo di sua madre continuava a tremare, sussultava insieme al fiato  della terra.

Lui guardava l’ennesima vittima, annegata nel vapore acqueo delle parole non dette, spezzate, interrotte.

Strozzato dalla girandola di automobili e di tir spetazzanti, soffocato dall’arbre magique compassionevole verso l’ umano letame, aspettava ancora di vomitare la rabbia.

Almeno lui.

Il fremito perenne delle mani, delle gambe, delle parole della gente di Resina, dal vico Mare a via Panoramica, da via  Benedetto Cozzolino a Corso Resina. Precarietà dell’eterno ritorno.

L’ansimante incedere di nonna Anna e della sua progenie, il dondolare impercettibile delle foto del secretaire, i soffi caldi che facevano gonfiare la pancia di Villa Cua. Sagome liquefatte di Vestali e Augustali tentavano di emergere a graffi dai parati a fiori beige, sfidando il grasso scivoloso delle carni arrostite o sudate. Le pareti adipose degli anni dieci sopravvivevano, rintuzzando gli spettri a colpi di unto e di rigurgiti di melanzane fritte.

Le catene sintattiche dei padri e dei figli. Fatte di cerchi infiniti, senza anelli mancanti e senza cesure. Tentativo di dire tutto prima che l’embolo raggrumato sotto i piedi li sorprendesse inespressi.

Maria Rosaria non riuscì a dire tutto, scivolò su un grumo di sangue e fu trascinata dai fiumi sotterranei, ingozzata di parole crollate sul suo fegato molle.

Le vocali cadute, le sincopi, le apocopi, le aferesi. Malattie endemiche di queste lande. E miliardi e miliardi di accenti orfani di sillabe cadute.

Puerile corsa contro il tempo.

Memorabile, immortale battaglia persa.

La paura. La fretta. Il tempo mozzato. La paura. La paura. La paura.

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