
A mio padre, silenzioso e devoto figlio di sé con senso di colpa e grande grande grande amore
di Paola Verdicchio
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-Ti prego, dai, raccontami le storie che tu sai,
di quelle che non ho sentito mai
-Di favole, ti giuro, davvero, che non ne so,
ma una sul pallone, se mi riesce, te la inventerò.
Albertosi era amico di Zoff…
(B. Savoldi, La favola del pallone)
“Amato Anna” rispose Erminio con la voce tremolante.
L’emozione di pronunciare in fila un nome e un cognome gli accarezzava l’anima graffiata e lo faceva piangere.
La stessa emozione di quando, a quindici anni, rispondeva ai professori dell’Istituto Tecnico Alessandro Volta.
La stessa di quando, a settantuno, rispondeva a ogni scazzatissimo impiegato del Comune di Ercolano, che gli parlava masticando chewing-gum e appannando il vetro dello sportello con il fumo di una MS.
L’emozione di rispondere alle aspettative.
“Amato Anna” disse, pronto, quando Genoveffa, gli chiese sovrappensiero.
“E come si chiamava tua nonna?”.
Una delle deliranti farfalle di suo padre era riuscita a raggiungerla.
Il nome e il cognome, così ordinatamente allineati, come su un libro mastro, riflettevano il rigore Erminio Verbiggi, il suo rispetto incondizionato per l’ordine costituito, per i cataloghi, gli inventari, gli elenchi, gli assiomi, i teoremi, le formule, i significati incontrovertibili, i giochi enigmistici.
Amava il posto il cui l’avevano messo fin dalla nascita e che per tutta la vita si era guardato bene dall’abbandonare. Gli piaceva proprio rispondere: Verbiggi Erminio, nato a Portici il 25 febbraio 1939.
Come se quella risposta fosse l’unica che sicuramente non avrebbe fallito mai e che nessuno gli avrebbe contestato.
Si sbagliava.
Ma, anche quando scoprì che il giorno della sua nascita non corrispondeva alla data ufficiale, quella che si portava dietro sulla carta d’identità, reagì con coraggio. E ostentò il cartoncino beige del Comune come segno della sua problematicità, della sua nerudiana lotta per la sopravvivenza in un mondo di efficientisti e di vincenti.
Quella sera Erminio se ne stava seduto, come al solito, al tavolo della grande cucina di legno, voluta da Maria Rosaria trent’anni prima e che ormai cadeva a pezzi. Agitava nel vuoto la mano libera e grinzosa. Con l’altra accarezzava con affetto l’eterna amica del momento, che gli teneva compagnia sempre fino alla prossima brezza di eternità. I vapori anestetizzanti della bionda di turno impregnavano i maglioni, le mattonelle, tutto l’appartamento di via Doglie 17.
Quello era il profumo paterno. In fondo per Genoveffa, che una sigaretta in mano non l’aveva presa mai, quell’odore era rassicurante. Entrava in casa e lo sentiva. La accoglieva e la abbracciava dai capelli opachi di suo padre.
Seguendo il filo dei pensieri, che, come di consueto, si dipanava ad arte, riuscendo a non sfiorare per nulla i presenti, Erminio, sbottò:”Sai che mia nonna era una strega?”
Lo agitava un antico bisogno di lasciare interdetto qualunque interlocutore, reale o immaginario, fosse anche un pezzo di muro. Anzi, quando in casa non c’era nessuno, si esercitava, provando i suoi sillogismi e le sue lunghe orazioni davanti all’attaccapanni dell’ingresso o appoggiato alla balaustra del balcone.
Quella sera non gli pareva vero che qualcuno, chiunque, gli rimanesse accanto per due minuti di seguito
“Ah sì?” fece Genoveffa, distratta dall’ansia di evadere in fretta dalla tana di suo padre, dove era entrata per assemblare la pastina con il dado, operazione che quella stessa sera sembrava più lunga del solito.
“Sì sì…- esplose di Erminio, meravigliato, ma neanche tanto, che qualcuno, chiunque, gli avesse aperto uno spiraglio. E comunque lui vi si sarebbe infilato a forza, senza chiedere permesso, portandosi dietro la sua scia di tabacco.
Vittima del tempo di cottura dei corallini, Genoveffa decise di riempire la fessura tra il brodo e la prima linea delle sillabe schierate già a battaglia sulla lingua di Erminio.
Pochi fonemi per difendersi dall’armamentario di parole che suo padre stava per riversarle addosso. “... Ah, davvero … ...ua nonn…si …mava Anna”.
Ma lui aveva già in mente il seguito,la risposta senza domanda, da tempo, da prima che lei nascesse, ordinatamente ripiegata, come uno dei suoi maglioni, uno qualsiasi di quelli che riponeva con cura, tutti unti di olio e pomodoro, nell’armadio.
Erminio non trattenne le lacrime. Non le nascose.
Le rese più palesi sventolandosi sotto il naso una bandierina di carta igienica bianca, sfiorita e umidiccia
“Amato Anna” disse forte e chiaro.
E giù singhiozzi. La bandierina si infradiciò completamente.
Il vino doveva aver aperto ormai la camera secretata, rendendo fluide le parole sclerotizzate all’interno delle arterie malandate, protette dai residui dei miliardi di cicche che Erminio aveva amato nel corso della sua vita.
“Mia nonna faceva le fatture!”sparò nel silenzio opaco della cucina.
Genoveffa non reagì a cotanta rivelazione.
Allora lui continuò.
“Tante uaglione venivano da lei, eh, lo sai questo? Le portavano le foto dei loro fidanzati! Io ero piccolo, ma me lo ricordo. Stavo sempre con mia nonna, la mamma di nonno Alfonso. Mia madre, nonna Alfonsina, te la ricordi nonna Alfonsina?”.
Senza aspettare la risposta proseguiva
“Mamma mia, che brava mamma che era nonna Alfonsina, mamma mia veniva a prendermi, nel pomeriggio, e chiedeva a nonna: -Ha mangiato Erminio? Che ha mangiato?- E nonna rispondeva - Un’altravolta pasta e fagioli- e mamma mia s’incazzava -Ma come?Un’altra volta pasta e fagioli? Ma quello è piccolino.- E nonna diceva “Ma io questo c’avevo…e poi gli piacciono assaje, vero Ermì?”.
Genoveffa sapeva che Amato Anna aveva ragione.
Da settanta anni e più suo padre continuava a mangiare pasta e fagioli con lo stesso amore, la stessa dedizione di quando, a quasi tre anni, per la prima volta li mangiò a casa di sua nonna, con l’aglio, la cotica e tutto.
I legumi avevano diritto allo stesso rispetto che lo faceva genuflettere dinanzi al canone Rai, alla dichiarazione dei redditi, agli editoriali dei quotidiani, ai vari dei ex machina, come chiamava lui i presunti manovratori occulti dell’opinione comune. Anche i fagioli erano un valore. Trasmessi per via genetica come la bellezza e genialità.
“Mio nonno si chiamava Verbiggi Erminio come me”- Parlava puntando i piedi e sollevandosi di una spanna sopra la sua statura di un metro, sessantaquattro e mezzo. “Lui era bravo,mi portava a fare i giri sul tram. Lui li guidava i tram. Eh, siamo una famiglia di autisti, pure nonno Alfonso era un bravo,lo sai che nonno Alfonso faceva l’autista? Solo tu sei uscita un po’ fuori razza…”.
Rise.
Genoveffa era per lui uno strano ibrido Verbiggi-Mennella, e certi talenti non li aveva, come il naso perfetto o l’abilità nella guida per esempio.
Riprese.
“Il tram di nonno passava per via Diaz, corso Garibaldi. Poi si fermava a Croce del Lagno. Allora nonno si girava verso di me e mi diceva: -Vedi, Ermì, quello è Cristo morto. Lo vedi? Guardalo bene, è pieno di sangue. Vedi i buchi dei piedi? Ti piace, Ermì? Non dire no, che fai peccato. Porta rispetto, è morto, fa’ la croce. Ci ritorniamo anche domani, se fai il bravo”.
E il piccolo Erminio faceva sempre il bravo per rivedere quel corpo squartato e sofferente, quell’eroe martirizzato da chi non lo comprese e non lo accettò.
Così si sentì per tutta la vita anche lui, incompreso come Cristo in croce.
Doveva essere nata allora quella malinconia gialla che suo padre si portava sempre sugli occhi e che ricopriva le sue cose, anche le più belle, di un rivoletto di sangue.
Un cristo morto crocifisso e sanguinolento come meta di un giro turistico familiare.
La morte era il filo di cotone che cuciva gli affetti dei Verbiggi, passandoci attraverso come un ago appuntito e arrugginito.
Ormai i corallini erano diventati molli. Genoveffa li versò nella scodella di ceramica e fuggì dalla cucina, perché quella viscida malinconia paglierina era caduta anche sulle sue dita.
Un po’ cascò pure nel brodo. Lo assaggiò: aveva un sapore di tabacco, di umidità, di albergo di quart’ordine.
Si sentì a casa.
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