Born to be a princess
Indovina chi non può?- Dentrattutto
di Paola Verdicchio
quante stupide galline che si azzuffano per niente minima immoralia minima immoralia
(F.Battiato, Sul ponte sventola bandiera bianca)
La sua maglietta blu con su uno scarabocchio dai lunghi capelli e una corona viola in testa. Uno svolazzo che svettava su zampette con i tacchi, infinite e scheletriche.
Uno sgorbietto con manie di grandezze. Un bacherozzo in delirio di onnipotenza. Una mazza da scopa coperta da voluminosi capelli castani. Finalmente, a trentanove anni, Genoveffa trovò il suo stemma. Amava quella maglietta Benetton 12 euro. E amava quello svolazzo senza manie di bellezza.
Lei capelli ora non se li faceva toccare più da nessuno.
Da quando aveva quattro anni, Maria Rosaria glieli faceva tagliare cortissimi, lasciandole scoperta la maschera buffa, le spalle magre, il torace gracile.
Senza di loro Genoveffa si sentì sempre una cosa qualunque: un maschio, una vecchia, un ragazzino, un pezzo di muro scrostato, un tronco.
Quando compì sette anni, sua madre decise che doveva imparare a stare in mezzo alla gente, familiarizzare con i bambini della sua età... La iscrisse alla scuola pubblica e iniziò a mollarla alle feste di compleanno di chiunque, in mezzo a pagliaccetti starnazzanti e appiccicosi, che puzzavano di salatini da cocktail. La lasciava lì dopo averla travestita con una vistosa maglietta rossa e blu su cui c’era scritto in rilievo KISS ME. Maria Rosaria amava quella T-shirt. Genoveffa la odiava.
E se ne stava col broncio tutta la serata e con le mani sul ventre, raccattando furtivamente briciole di pop corn e patatine dalle tovaglie unticce, perché la fame non aumentasse la sua arrabbiatura.
Per tirarsi fuori dalla melma che inghiottiva, al ritmo dei pensieri, un pezzo della sua testa, delle braccia, del fegato e delle viscere, Genny espelleva i suoi accessi di collera, vomitandoli su fazzolettini di carta, salviette, carta igienica.
Ritagli del suo corpo spruzzati di inchiostro, concetti di milza spappolati e ricomposti con un bisturi di grafite. Lei lo portava sempre con sé, nascosto nei calzettoni bianchi che le lasciavano ogni volta un braccialetto rosso di capillari affioranti intorno al polpaccio.
La sua gamba sembrava uno di quei grissini su cui era avvolto il prosciutto che nessuno mangiava.
Oltre le feste, i bambini, le torte preparate dalle mamme, tutte le mamme che non fossero la sua, Genoveffa odiava i fiori .Anche quelli freschi. Preferiva gli ortaggi, i tuberi. Meglio una patata sporca di terra che un lilium in un barattolo di cristallo.
I fiori le facevano venire in mente i cimiteri.
E lei non riuscì mai a entrare in un cimitero.
Milioni di presenze e di assenze che si contendono l’aria di un vuoto cementificato e pieno di fiori. Madri sopravvissute ai loro ventri. Figli in volo libero senza paracadute.
Un giorno Maria Rosaria la mollò per sempre a una delle tante feste a cui lei non voleva partecipare e non venne a riprendersela. Pensò che sua madre fosse fuggita in un paese lontano, dove finalmente non doveva più insegnare l’italiano a un branco di deficienti o raccattare i pezzi imbronciati di sua figlia in giro per le case di Ercolano e dintorni.
Ma certamente non poteva essere in un cimitero. Gli altri potevano dire ciò che volevano. Maria Rosaria non ci sarebbe mai andata in un luogo puzzolente e troppo bianco, troppo nero, troppo pieno, troppo vuoto, troppo tutto.
E avrebbe fatto un casino per quella foto che avevano scelto in fretta per la sua lapide, un’immagine in bianco e nero con la parrucca ammaccata dietro la nuca e sulla fronte. Lei che si cotonava i capelli ogni minuto in cerca di volume, aria, luce, colore. Sì, avrebbe fatto un casino … della miseria.
Il mare, quello sì, a Genoveffa piaceva.
Una coperta stesa su miliardi di respiri vitali, che ne increspano la superficie. Sembrano giochi di vento e invece sono feti che nuotano nella acquosa placenta, che respirano forte. Vivono forte prima di morire.
No. Non le piacevano i cimiteri…E le piaceva il mare…
Dinanzi allo specchio del bagno, una sera qualunque di una lunga adolescenza, Ivan, suo fratello, guardando le loro immagini riflesse, sorrise beffardo, mentre le diceva C’è chi può e chi non può. Indovina chi non può?
A quindici anni Genoveffa già portava il suo fisico cetrioliforme per le strade claustrofobiche di Ercolano.
Le vetrine delle salumerie e delle mercerie riflettevano il marciapiede scarnificato da passi indifferenti, il lampione pietoso, la signora grassoccia e sudaticcia e la sua busta della spesa, e tutta la varia flora che cresceva alle sue spalle, a volte anche sulle sue spalle. Tutto tranne lei.
Ivan era sempre stato un ragazzino capace, di intelligenza viva e sveglia, uno che a scuola si divertiva tanto e studiava poco. Talento.
Lei no. Lei si era travestita fin da piccola da topo di biblioteca per far felice sua madre e, anche così, riusciva ad annoiarla a morte. Maria Rosaria voleva solo ridere.
Genoveffa viaggiava in vesuviana, fingendo di ignorare tutto e tutti, con il naso a patata immerso in mattoni inespugnabili. Non era necessario capirli davvero quei libri e lei per lo più li scorreva senza capirli, lasciandosi ipnotizzare dalle parole scollate quel tanto che bastava per non guardarsi riflessa nel vetro .
Così quel faccino che spuntava sotto la frangia, aiutato da un make up perfetto di studiosa fuori dal mondo, sembrava persino affascinante.
E quando indossava top scollati e attillati, a volte riusciva addirittura a ingannare qualche sguardo. Senza, chi l’aveva mai cagata?
A volte, poi, l’invisibilità poteva essere riposante. Seduta accanto al finestrino, in incognito, senza trucco, i capelli legati, un libro del cavolo o una rivista tipo Donna moderna aperta alla pagina della maschera al miele e limone contro la pelle grassa. I ragazzini la chiamavano signora e le cedevano il posto.
Gli adulti si tenevano sempre un po’ alla larga, guardando con sospetto le sue magliettine storna-neomamme invasate-casalinghe in preda alla frenesia della pasta e fagioli lasciata sul fuoco, pensionati in astinenza da conversazioni da tram.
Emily the strange, magrolina e imbronciata, con il suo inseparabile gatto nero, guardava la gente dal torace stretto di Genoveffa, affacciandosi dalla scritta MY PROBLEM IS YOU, che campeggiava su quell’ ammasso di viscosa ed elastam color sangue rappreso che era la maglietta più amata da Genny.
Così, mentre l’adolescente di stoffa, lanciava il messaggio per conto suo, Genoveffa poteva starsene in pace a contare i punti totalizzati nel test Quanto siete portati all’infedeltà?
Invisibile. Di un’invisibilità strafottente e incazzata. Un po’ come quando da bimba incrociava le braccia sul ventre e cominciava a contare nervosamente i sampietrini di Corso Resina per non arrabbiarsi con qualche Resinaro di passaggio che chiedeva a sua madre se a’ criatura fosse maschio o femmina. Se no Maria Rosaria le avrebbe fatto una testa così: e non rispondere in maniera antipatica, poi non ti lamentare che nessuno ti pensa, bisogna imparare fin da piccoli a essere cordiali con le persone… E continuava così per tutta la giornata…….
E tutto per colpa di Franco il parrucchiere che si era data l’improba missione di rinforzarle i suoi spaghettini castani.
Saper ballare, dipingere, cantare…talento. Niente.
Cogliere al volo i segni, ricomporli e decodificarli, correre più veloce degli altri, saper volare… Talento. Niente.
Possedere una villa, un’auto almeno decente, riuscire a mantenerla. Soldi. Niente
Salute. Mica tanta…
Però… però… Sì...ecco! Era “profonda”…
Così profonda che dopo essere stato a contatto per dieci minuti con uno che si lamentava le scoppiava l’emicrania, così profonda che pregava solo per se stessa, così profonda che non aveva mai donato il sangue….
Aveva a profondità di una secca in alto mare
Indovina chi non può?
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