
di Paola Verdicchio
Quella notte strana Genoveffa sognò la casa di nonna. Una notte senz’aria. Una delle tante.
Dalla morte di nonno Pippo era così vuota…. la casa di nonna.
Accasciata su Corso Resina, continuava a vomitare pezzi di intonaco sulle auto, sui passanti.
Se ne era andato così Filippo Falcone, così senza clamori, così diversamente da come era vissuto. In fondo, però, senza rimanere immobile in un letto, senza avere addosso tante mani che odiava, semplicemente perché non erano le sue.
Il Vecchio lupo irpino, petroso e molle. Molle di pregiudizi e odi antichi. Duro di pregiudizi e odi antichi.
Nato su un dirupo di roccia precaria, adulto e senza madri.
Allattato da mammelle sconosciute e prezzolate, non conosceva dolcezza, solo lavoro, terra, pane raffermo sopravvivenza.
Risposte, non domande.
Niente dubbi. Petrose, molli certezze.
A cominciare dal suo quaderno dei calcoli di III elementare, custodito come una reliquia salvifica, consultato come l’oracolo delfico, ogni volta che aveva bisogno di una risposta.
Mani callose. Occhi senza fissa dimora. Legati a una grossa pietra e gettati nell’acqua paludosa di un tombino di Resina. Perché a Resina fiumi veri non ce ne erano. E l’acqua bassa non bastava né per sopravvivere né per farla finita.
Il milite di Gesualdo lo trovarono una mattina riverso sulle piastrelle screziate di putridume millenario, nella casa di Ercolano, dove viveva in esilio volontario. Da quando aveva sposato una Resinara.
Zio Mario,marito della sua seconda figlia, Luisa, lo raccolse bluastro e gli tolse dalle mani fredde il cucchiaino sporco di caffè, il veterano di mille battaglie. Nonno Pippo fu colpito a tradimento al petto stava preparando la colazione a nonna Anna, più vecchia di lui e sua quarta bambina.
L’affetto delle sue tre figlie lui se l’era fatto rubare secoli prima, nei decenni in cui si era distratto a lavorare duro sulle navi, sulle autostrade, nelle fabbriche desolate di paesi abbandonati. Dove si sentiva a casa.
I ladri: altri uomini e altre madri o chiunque avesse affondato le mani nelle sue cose senza neanche chiedergli il permesso, solo perché lo avevano già chiesto all’unico capofamiglia che tutti riconoscevano, nonna Anna.
Nonno Pippo le odiava le tre sorelle zitelle di sua moglie, le vergini attempate che gli avevano rubato le confidenze quotidiane delle sue figliole. Rosa, Giovannina e Maria, vecchie vestali dell’arte sartoriale, occupavano, con le loro macchine da cucire, uncinetti e stoffe, le ultime due stanze della casa, ma spesso sconfinavano inavvertitamente in territorio nemico o lasciavano fili del loro cotone nei corridoi, per marcare il territorio. E allora il lupo dal pelo bianco ringhiava loro contro per rintuzzare l’invasione. E faceva ancora paura.
Per tutta la vita lui combatté a vuoto per riprendersela la sua roba.
Sputava ogni respiro affannato a difesa della sua proprietà.
Anche le sue tre principesse le aveva fatte lui. E da sempre aveva sbattuto la porta in faccia a qualunque fesso si fosse presentato alla porta, azzurro o paonazzo che fosse …
Ma in un giorno qualsiasi del suo lungo odio l’indomito animale fu battuto da un embolo di una vecchia arteria malandata che aveva cercato di guarire, spesso ignorandola, a volte sfidandola a braccio di ferro.
Nonno Pippo.
Non era gradita la sua presenza ai convegni convocati nella stanza degli uncinetti delle zie ricamatrici o ai tribunali familiari impiantati intorno alla vasca del bagno.
E lui non riusciva mai a forzare i posti di guardia.
E allora origliava senza ritegno per sapere cosa stesse accadendo a sua insaputa, per dimostrare l’indomani che lui, il capofamiglia, sapeva cosa succedeva nella sua casa prima di tutti e prima che qualcuno si degnasse di informarlo.
L’avesse saputo che sarebbe finita così forse non ci avrebbe creduto alla disfatta annunciata. Si sarebbe armato lo stesso contro il mondo, come aveva fatto sempre.
Una sera nonno Pippo telefonò a Genoveffa.
“Quando vieni a trovarmi? Non vieni mai. Ma che ti ho fatto?”
“Ho capito, non ti rivedrò più” concluse, mettendo fine al silenzio di sua nipote.
Lei era la sua ultima principessa.
Tutte le volte che fuggiva lontano da lui e dal nome importante che il nonno aveva scelto per lei- un’ipoteca di sghemba onnipotenza-si rassicurava pensando che don Filippo Falcone sarebbe vissuto in eterno nella sua realtà, nei suoi incubi e nel suo nome.
Non si rividero più.
E il livido di una vecchia arteria malandata rimase tatuato per sempre sulla pelle bianca di Genoveffa.
Da allora nonna Anna rimase sola e sibilante. Persa tra le ombre del suo cervello disfatto, avviluppata nelle sue ossa fragili, inumidite talora dalle cispe lacrimanti dei suoi occhi introversi, retratti dal mondo.
Un pomeriggio della sua troppo lunga adolescenza Genoveffa si fece forza e tornò nel vecchio palazzone di Resina, numero 213.
Villa Cua sorgeva in mezzo a budelli senza fondo.
Muri scalcinati impregnati di profumi di origano e salvia, piastrelle scheggiate che scintillavano a tratti di aghi e uncinetti finiti tra le crepe del marmo. La casa di nonna i muri di nonna, la stanza di nonna, l’armadio di nonna, la soffitta di nonna: tutto aveva anima di femminino.
Come se nonno Pippo non ci fosse mai stato. Non fosse mai esistito.
Nella stanza più interna della casa, dentrattutto, campeggiava ancora il lettone imbottito di muffa sul suo scheletro di legno, impregnato di umori imprecisati.
Lì, solo a Natale, le mamme Mennella adagiavano tutte le bambole di cartapesta che abitavano in soffitta e, ogni anno, con un dito in meno.
Dai cassettoni dentrattutto esalavano strani effluvi e respiri di anime silenziose che ipnotizzavano Genny. Sentiva litanie senza parole provenire dal laboratorio delle Moire tessitrici, dai pedali della macchina da cucire, dai loro panni ordinatamente ripiegati e ansimanti sotto la superficie fibrosa dei mobili.
“Non c'è niente da scoprire nei cassetti, sempre le stesse cose ti devo ripetere … in questa casa non ci sono misteri …abbiamo solo posate, tovaglie, piatti! Non ho capito che vai cercando …comm aggia fa cu ‘sta criatura?” pregava nonna Anna quando, dai quattro ai tanti anni seguenti, ‘a criatura si gettava a capofitto in quei contenitori del tempo, sollevando le forchette e le salviette di lino in cerca di bocche e occhi umidicci rimasti imprigionati e dimenticati.
Che ne sapeva la nonna dei suoi amori solitari con pezzi di corpi persi da angeli vecchissimi, che ne sapeva lei delle sue fughe dagli sguardi torvi del Dio sul comò dentrattutto, dei fiati doloranti delle stanze, quei soffi caldi che solo lei poteva sentire e che le si attaccavano sulle spalle, pesanti come lenzuoli bagnati?
Vangava in quegli asili, con quel sudario inzuppato addosso a inumidirle la pelle scartocciata. Profanava quei ventri caldi per cercare il nome, la consistenza e il profumo del lamantino dalla testa enorme che le cresceva nella pancia da sempre, che le mangiava le viscere, che le nuotava tra le vacuità paurose del corpo. Un corpo accasciato, senza sangue, che cresceva incartato in un telo ricamato e sudato, una tovaglia di lino. Fibra tra le fibre. Che continuava a vomitare pezzi di sé in tutte le stanze e in tutti i cassetti, sotto le stoffe linde e preziose..
I vuoti e i pieni, i pesi le voragini, le carezze bulimiche e i reticenti spazi sospensivi tra le parole di Genny erano tutti coperti da un gigantesco lenzuolo, tutti trascinati giù da un’unica, profumata zavorra.
Dopo quasi trent’anni, gli stanzoni di casa di nonna erano ancora vivi di piedi, pezzi di pelle, sillabe perse da spiriti spauriti.
Genoveffa abbassava lo sguardo per non incontrare le pupille vitree delle statuine di Capodimonte prive di dita, del vecchio pagliaccio di vetro dai colori tristi, di trisavoli severi. Scheletri, fossili, reliquiari di paure antichissime.
Tornò lì solo per poco tempo, solo per accarezzare ciò che rimaneva di sua nonna, il suo profilo perfetto, così diverso dai tratti buffi e contaminati di quella maschera strana che Genny si ritrovava appiccicata sotto la fronte.
Ninina stringeva a pugno le sue manine violacee o le sguainava a mo’ di spada, agitandole nel buio per difendersi da tutti gli occhi che la conoscevano da sempre e che lei non riconosceva più,da tutte le parole che si appiccicavano come gelatina sui suoi vuoti di mente e non scivolavano giù.
Il respiro monocorde che ripeteva un’unica ossessiva parola, mamma.
“È strano come a due anni o a novanta si cerchi un ventre entro cui rannicchiarsi fino a morire di una morte placida, che non strappa, ma accompagna”.
Genoveffa ripensò a Maria Rosaria, sua madre, morta di vita qualche anno prima e che ora la guardava dal secretaire dentrattutto .
Camminò veloce lungo le arterie della grande casa, che, ora, non le sembrava per nulla più piccola di quando la strisciava di corsa a otto anni. Ora, come allora, gli occhi del Cristo del secretaire dentrattutto la seguivano e le iniettavano, con disappunto, rimproveri non diluiti sotto pelle
“Non sei stata accanto alle persone che ti amavano, sei sempre fuggita, qui non riuscivi a respirare, qui avevi sempre le emicranie. Troppo comodo! Ma che ti hanno fatto? Ti amavano e invece tu li hai abbandonati… D’altronde sei sempre stata una peccatrice, una poco di buono, fin da piccola… Scappavi perché sapevi di essere una diversa, non sei mai stata una di loro, le hai tradite. Sei sempre stata così, …”
Mentre correva col capo chino lontano dal secretaire, Genoveffa pensò spesso di essere stata adottata…
Ma anche Maria Rosaria, sua madre, la sua irreprensibile madre, provava un certo malcelato disagio di fronte quegli occhi divini, indagatori di segreti inconfessabili. Lei lo confidava a occhi bassi: spesso l’immagine le sembrava cambiare espressione. Se aveva compiuto una buona azione, Gesù sorrideva, se, invece, aveva peccato, il Cristo del Secretaire, in mezzo alle foto tristi di bisnonni santi e di infanti dagli occhi senza luce, assumeva un’espressione arcigna e minacciosa.
Ma a Genoveffa non aveva mai sorriso. Mai. Neanche una volta.
Mentre correva lungo il corridoio, rasentando le pareti, graffiandosi con il parato ormai ridotto a carta vetrata, si fermò di colpo, per la prima volta, di fronte al Volto Santo che da sempre la rimproverava.
“E tu, invece, cosa hai fatto? Sei stato qui, circondato da fiori, preghiere, richieste d’aiuto. Bravo! E che ti costava restituire la vita a mia madre? Ti hanno… ti abbiamo supplicato… Perché ora non concedi la morte alla nonna? Non lo vedi come l’hai ridotta? Che ti ha fatto quella poverella? Mai una protesta, , un’alzata di capo dal primo giorno della sua vita, quando, per venire alla luce, ha ucciso sua madre… e ora cosa vuoi ancora dalla mia famiglia? Cosa vuoi da me? Cosa vuoi da me? Cosa cazzo vuoi da meeeeeeeeeee? Lasciami stareee, lasciami stareeeeeeeeeeeeeee…OOOOOH!!!!! Non guardarmi, eh?….non guardarmi più…MAI MAI Piùùùùù……”.
E poi via, via, via... lontano. In fuga da parole inutili, la decimilionesima di quelle fughe precipitose che dalla stanza delle zie, dentrattutto, la conducevano da più di trent’anni sulle soglie della cucina, senza fiato. Meno male che la cucina, con i suoi effluvi, aveva il potere magico di calmarla, cullarla come un feto nel grembo delle sue tante mamme che cucinavano in pentole capienti i loro affetti come fossero filtri magici.
Al latte caldo delle ballotte Genoveffa aveva sempre preferito il guscio bruciacchiato delle caldarroste. Le mani sempre impazienti di nonna Anna le sbatacchiavano nel vecchio tegame forato, preziosa reliquia della sua strana famiglia di sole donne.
Le sue mamme erano tante: c’era nonna Anna e poi c’erano le sue tre sorelle ricamatrici. Tutte sapevano rimboccare ad arte i lucidi frutti con un cencio tostato a fiori blu, che assomigliava piuttosto a una delle eleganti gualdrappe tessute dalla sapienza antica delle vecchie zitelle.
Avevano tutte l'odore dell'origano dei setacci, il colore delle macchie di pomodoro delle melanzane alla parmigiana.
Erano maestre nell’arte di cloroformizzare i sensi con le tiritere del loro rosario, recitato alla luce fioca del tramonto in uno strano idioma.
Latino? Genoveffa imparò anche quello per riuscire a tradurle.
Le vergini ricamatrici imprecavano sibilando e sputacchiando in criptici idiotismi, quando la stoffa indomabile contraddiceva l'ordito. E sfuggivano a ogni tentativo di comprensione.
Le attempate Vestali senza amore confortavano la loro solitudine ricordando il vicolo in cui vivevano un secolo prima, i bimbi scalzi e sudici, l’odore della lacca, il sapore del rossetto, le saponette alla lavanda, le lezioni di cucito che si impartivano davanti ai bassi.
Nei loro camici da casa nascondevano sempre qualche scheggia di specchio e i loro abbracci pungevano degli aghi che portavano appuntati sul petto come spille di lusso: piccole teste luminose perse tra i fiori sgargianti delle stoffe. Quando le salutavi ti lasciavano addosso insopportabili effluvi di violetta infiocchettati da qualche straccio di tessuto.
Nonostante il cotone delle loro spagnolette le sembrasse ora affiorare dalla sottile pelle dei suoi polsi, la vita di Genoveffa somigliava piuttosto a un ordito sfilacciatosi dal canovaccio delle sue madri.
Qualche anno prima nonna Anna ancora le porgeva la sedia, arrancando nei suoi buchi neri.
“Prego, signora, vuole un caffè?”
Ma la signora Genoveffa non aveva mai bevuto caffè, sottraendosi a un altro dei riti di famiglia.
Poi anche l’ultima spagnoletta terminò. E, dopo il litigio con il Cristo del comò, la signora, per paura della Sua punizione, non riuscì più a salire quei settantasette gradini scalcinati di Villa Cua...
E addio all’ultima delle sue madri, morta nel cuore di Genoveffa molti anni prima di quel novembre 2009, in cui il corpo piccolissimo di Anna Mennella andò a fare compagnia ai frammenti delle sue sorelle e delle sue figlie nel cimitero di Ercolano. Lì ora riposavano tutte le sue mamme, abituate al dolore, al pane stantio, alle ali spezzate a colazione e a cena. E anche Genny conosceva da sempre certi sapori.
La casa di nonna Anna, con la sua puzza di caldarroste bruciate, i suoi uncinetti chirurgici, il tanfo del pane stantio fiorito nella macchina da cucire continuavano a fermentare nella pancia gonfia di Genoveffa. Dove, ormai, non c’era posto più per nulla.
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